Fabrizio Parachini
UNO STRADARIO PER CARLO BUZZI
L’oggetto e i mezzi
Nel 1990 Carlo Buzzi pubblica sull’edizione italiana di Flash Art, n° 156, un inserto a tutta pagina così costruito: in alto la scritta in carattere stampatello e di grandi dimensioni PICASSO, nel centro l’immagine di uno scopino per wc e in basso la scritta “Orario 20 – 22”. Il tutto realizzato in una composizione graficamente ben bilanciata, in bianco e nero, e assimilabile formalmente a una normale pubblicità di un evento o di una mostra. Un’inserzione a pagamento, una pagina tra le altre pagine senza didascalie o spiegazioni di sorta. Altre due operazioni con immagini similmente composte vengono riproposte nel 1990 ancora in Flash Art, n°158, la scritta “KOSUTH”, la fotografia di un paio di forbici sovrastate dalla stampigliatura “SETTLED” e l’indicazione “Tutti i giorni dalle 20 alle 22” e, nel 1991, sulla rivista Juliet Art Magazine con “WITTGENSTEIN”, la fotografia di una chiave e la frase “THROUGH NOVEMBER 1990”.
I tre personaggi prescelti i cui nomi sono assunti quasi come “Headline” di un annuncio stampa sono chiaramente personalità di riferimento (celebrity) dell’ambiente culturale e un po’ meno del contesto pubblico (se Picasso è conosciuto a quasi tutti i livelli non si può dire la stessa cosa del filosofo Ludwig Wittgenstein e dell’artista concettuale Joseph Kosuth). Gli oggetti rappresentati sono parte del quotidiano e talmente banali e poco significanti da non poter neppure rientrare nel novero delle cose legate a un vissuto personale. Le loro combinazioni con i nomi possono essere ritenute meditate, come in un’operazione concettuale, o istintive, come in una libera associazione di matrice psicanalitica o surrealista; in prima battuta la cosa è indifferente e quello che conta appare essere la capacità evocativa dell’immagine nel suo insieme, e la sua capacità pervasiva.
Nel 1991 l’artista progetta la sua prima affissione pubblica sui muri di Milano realizzata mediante 140 manifesti esposti per 15 giorni nei quartieri più centrali della città (non casualmente uso il verbo “esporre”). Il poster di cm 100×70, presentava una struttura uguale agli inserti per rotocalchi descritti prima con altri elementi compositivi: in alto in grande la scritta VAN GOGH, al centro l’immagine fotografica di una grattugia di metallo per il formaggio, quindi un titolo, “TUTTE LE OPERE” e per ultimo “ORARIO 20.00 – 22.00”. Nel 1992 anche l’immagine del precedente inserto pubblicitario dedicato a Picasso diventa un manifesto per un’altra campagna di affissione sui muri di Milano. Le operazioni condotte sono simili nella progettualità e nel programma a quelle realizzate per mezzo stampa. Ciò che cambia è il luogo in cui questa si svolge, nelle strade a contatto diretto con qualsiasi possibile “vedente” o, in un ottica di feedback peraltro mai dichiarata ma inevitabile, con qualsiasi possibile fruitore. La pubblicità si fa ancora più pubblica, pensando alla strada o alla piazza (il fuori le mura domestiche, sostanzialmente) come al luogo dove per antonomasia tutto si fa pubblico o pubblicamente: si dimostra, si manifesta, si urla, si condivide e, infine, ci “si espone”. Potremmo dire, per schematizzare la sequenza delle operazioni, dentro il ri-quadro del pannello e delle norme ma fuori dalla galleria, dentro un “sistema” (quello dell’arte che non è più “il mondo dell’arte”1 che conoscevamo) ma fuori dai suoi obiettivi.
A queste prime prove ne seguono altre con manifesti dalle immagini più enigmatiche ma sempre di una certa forza comunicativa. “L’evoluzione del pollo” per esempio del 1993, e poi il lavoro quasi conseguenziale che riporta un particolare di un pollo vero, da banco di macelleria, con il logo carpito questa volta abusivamente e provocatoriamente “United Colors of Benetton”. Chiara la denuncia dell’ormai evidente e invasivo crossing-over tra arte e pubblicità (e in questo caso denuncia è un termine improprio data l’asciuttezza dell’immagine e la freddezza dell’operazione).
Successivamente si affacciano le prime auto esibizioni di parti del proprio corpo nudo, mascherato o “contraffatto”, che vanno a occupare tutta la superficie dei nuovi manifesti: esibizioni che si ripresenteranno periodicamente fino a oggi. Il volto tumefatto come quello di un cadavere nel 1995 o ironico mentre gonfia un palloncino fatto con il chewing-gum nel 1998; completamente pitturato di nero a simulare un individuo di colore nel 1999 (“Artista Multietnico”) o con in mano una bacchetta magica a mimare un mago nel 2005. Una ripresa di schiena, il dorso nudo e la nuca, con un bicchiere tra le due mani è ciò che vediamo in “Red Back Wine” (2013) e mentre dirige una bacchetta forcuta nel “Rabdomante” del 2013. Il compiacimento mimetico è evidente nei travestimenti di “Incappucciato” (1997) o da frate in “FFPP” del 2013.
Ora Buzzi, attraverso le immagini “manifeste” del proprio corpo, porta la “specie d’artista che vuole essere” direttamente nelle strade come se in questo modo la sua azione venisse dichiarata ancora con più forza e senza apparente intermediazione. E, in un intervento ancora successivo, “The Scream” (una personale e mediatica interpretazione de L’urlo di Edvard Munch del 2015) anche la grandezza del manifesto diventa elemento qualificante quasi che la visibilità come artista sia posta in relazione diretta con la dimensione fisica dell’immagine che, in questo caso, raggiunge anche i 50 metri quadrati di superficie. Due ultime osservazioni devono essere fatte sugli oggetti e i mezzi che sono l’operare di Buzzi. La prima è che tutte le affissioni e le inserzioni sono realizzate seguendo le norme comunali e nazionali che le regolarizzano. Nulla viene fatto abusivamente e la dimensione della campagna dipende dall’investimento economico così come la dimensione delle immagini dipende dalle dimensioni dello spazio (cartelli) disponibili o comunque previsti. La seconda è che nelle mostre che seguono, o intercalano le operazioni sul campo, spesso viene esposta la documentazione amministrativa che è stata necessaria alla loro attuazione, insieme alle riprese fotografiche di quelle che potremmo definire le “installazioni aperte” e unitamente a strappi di manifesti in toto o in lacerto incorniciato. Queste azioni vengono definite dall’artista una “formalizzazione” dell’avvenimento e l’uso di questo termine burocratico sembra indicare, e esibire, la freddezza di un’operazione tutta concettuale che nulla concede alle emozioni proprie e altrui. Cosa peraltro che deve fare i conti, invece, con il fatto che tali azioni appaiono il segno di un prelievo voluto e attivo di contenuto e di forme dal mondo delle immagini murali e quindi da un mondo sociale vivo, aperto e pulsante.
1A proposito ricordiamo l’importante articolo di Lawrence Alloway pubblicato su “Artforum” nel 1972 Network: The Art World Described as a System (Rete: il mondo dell’arte descritto come un sistema). In: http://artforum.com/inprint/issue=197207&id=33673.
Il metodo
Che tipo di immagini ha inventato e inventa Carlo Buzzi? Direi dei messaggi pubblicitari che appaiono come portatori di informazioni attendibili nonostante la loro essenzialità ma, soprattutto, la loro palese incompletezza. Ciò che si vede non coincide con ciò che si viene a conoscere e con ciò che dovremmo aver conosciuto. L’osservatore guarda ma non sa cosa esattamente sta vedendo, e questo è il primo risultato dell’artista che in questo modo svela quello che è una realtà dell’esistenza umana e sociale.
Gli elementi visivi, grafici e verbali di questi manifesti si relazionano tra di loro, questo è evidente, ma non tanto per svelare nuove evidenze di senso quanto per indagare gli elementi costitutivi della comunicazione pubblicitaria assunta come elemento espressivo in se nella realizzazione dell’opera d’arte. Opera che, in questo modo, diventa ancora più complessa e articolata: un progetto di campagna, un’immagine, delle scritte, un prodotto materialmente inesistente che diventa astrazione e pensiero e, in fine, una “cosa” tangibile che documenta, ma anche frammenta, l’opera stessa. L’appropriazione dei mezzi pubblicitari costruisce il metodo con cui “fare arte” e attraverso il quale superare il luogo dell’arte, la galleria o il museo, per diventare nelle intenzioni dell’artista “Arte Pubblica” e non Pubblicità; pensiero e non prodotto. Naturalmente anche nel progetto di Carlo Buzzi tutto si mescola come sempre accade nella contemporaneità: il mondo della quotidianità con il mondo dell’arte, il linguaggio commerciale con quello della poesia e quello che è rifiuto di consuetudini culturali diventa consumo di immagini preconfezionate. Wittgenstein, Picasso, Van Gogh e l’identità stessa di Buzzi sono sia semplici parole, che evocazioni, che persone reali; ma cosa saranno in quel preciso momento in cui i manifesti verranno guardati sarà solo l’osservatore a deciderlo, più o meno consapevolmente e in funzione del luogo in cui li guarderà. I manifesti affissi pubblicamente non sono le circoscrivibili immagini che possiamo trovare sui muri bianchi di una galleria. Ciò che realmente ci è dato vedere è il risultato della loro interazione con i tipi di muri su cui verranno incollati, con gli altri manifesti vicini, con gli strappi e le scritte sovrapposte. Un gioco surrealista, una specie di “cadavre exquis” moderno e ancora più dilatato, le cui associazioni lette nella loro unitarietà saranno rivelatrici delle pulsioni sotterranee, dei pensieri e dello spirito del luogo e del momento, forse impersonale e forse invece specchio fedele di un inconscio collettivo anche poco auspicabile.
Il brand
Carlo Buzzi si autodefinisce “Artista Pubblico” e, segnatamente, l’unico vero artista pubblico. Non ci dice che relazione ci sia (quale consequenzialità?) con il termine di Public art2, sotto il quale si raccolgono le manifestazioni espressive più disparate, dall’arte monumentale agli interventi relazionali urbani. Ma, attenzione, la definizione che l’artista ha individuato non costituisce, a mio parere, un’assunzione di ruolo. Si tratta piuttosto di un attento sconfinamento (sconfinamento che è sempre presente nel suo lavoro) nell’ambito della comunicazione professionale di tipo pubblicitaria, intrapreso per studiarne e carpirne gli strumenti da utilizzare a sua volta, come abbiamo già visto, come mezzi del fare arte e non solo del comunicarla. Una sigla, un marchio, una dicitura che nella sua formulazione chiara, ma dai contenuti indefiniti, è capace di indurre aspettative nella mente di colui che la trova associata a un prodotto artistico. In poche parole si parla della creazione di un brand, quello dell’unico vero artista pubblico che può essere visto come un elemento aggiunto, e significante, alla già dichiarata propria grammatica espressiva e che si dimostra all’altezza dei tempi attuali che inevitabilmente della pubblicità e dell’affermazione del brand, qualsiasi cosa si possa definire con questo termine, sono impregnati fino alla radice3.
2La public art non si sostituisce così né all’architettura né all’urbanistica, ma disturba e provoca entrambe: sovverte coordinate spaziali e temporali, vince abitudini consolidate, stimola il pubblico a vivere lo spazio in modo attivo e partecipe. «La public art deve stringersi dentro, introdursi sotto, sovrapporsi a ciò che già esiste nella città. Il suo comportamento consiste nell’eseguire operazioni su ambienti già costruiti» (“Lo spazio pubblico in un tempo privato”, in “Vito Acconci”, p. 132). «All’artista pubblico si richiede di intervenire non sugli edifici ma sui marciapiedi, non sulle strade ma sulle panchine ai lati della strada, non sulla città ma sui ponti fra città e città. La public art funziona come una nota a margine: può solo commentare o contraddire il testo principale di una cultura» (“Andare all’esterno”, in “Vito Acconci”, p. 140) (Adachiara Zevi, Arte e spazio pubblico, “Enciclopedia Treccani”, ad vocem, www.treccani.it, 2015)
3L’idea di “brand” da molti anni viene associata all’arte contemporanea. Basti citare l’articolo comparso su “The Economist”: Portrait of the artist as a brand (www.economist.com/node/499033, 2001). Ma anche l’affermazione: Damien Hirst is a brand, because the art from of the 21st century is marketing (G. Greer, Germaine Greer Note to Robert Hughes: Bob, dear, Damien Hirst is just one of many artist you don’t get, in: www.theguardian.com/artanddesign/2008/sep/22/1, 2008).
I depistaggi
Che rapporto esiste tra gli strappi di Carlo Buzzi e quelli degli “Affichistes”? direi pochi. I manifesti strappati, i collage, gli assemblaggi e le sovrapposizioni di questi ultimi sono metodi per comporre una superficie, per dare sostanza formale a un progetto di lavoro. Colori e soggetti, mascheramenti o svelamenti, i lacerti di manifesto o le parti stratificate sono tutti elementi compositivi, quasi pittorici anche se atipici, che parlano primariamente del proprio linguaggio e secondariamente di elementi testuali condivisi da una comunità più o meno allargata4.
Buzzi invece realizza e poi affigge, e i suoi strappi nascono, lo voglia o no, dalla volontà di sottrarre il proprio lavoro ideativo, la proposta iniziale, all’azione distruttiva del tempo e al naturale processo di corrosione di qualsiasi cosa sia lasciata al suo destino. Quasi un gesto di autoconservazione attuato attraverso il recupero di parte delle proprie idee e delle immagini create. Per questo l’incontro con le “opere recuperate” di Buzzi e gli affreschi superstiti presenti nel Museo Civico di Campione d’Italia (nella mostra Antologia Pubblica tenutasi nella primavera-estate del 2013) è stato cosi pregnante. L’apparentamento tra immagini vecchie di secoli e nuove, ambedue “salvate” in modo parcellizzato e non presentate nella loro integrità, ha svelato il loro valore simbolico comune, quello di un gesto tutto umano di protezione e conservazione, che supera anche il valore estetico e iconico.
4Così Mimmo Rotella parla dei suoi “décollage”: Rimasi impressionato dai muri tappezzati di affissi lacerati. Mi affascinavano letteralmente, anche perché pensavo allora che la pittura era finita e che bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo e di attuale. (…) La maggior parte dei miei décollage sono presi come li ho trovati, già lavorati dall’uomo della strada e dalle intemperie (in: Rotella’77, Il Collezionista, Edizioni/1, Roma, febbraio 1977).
Le connessioni antidogmatiche di Carlo Buzzi a Torino
Nell’ottobre-novembre 2015 Carlo Buzzi ha realizzato per Torino, in collaborazione con Paolo Tonin della omonima galleria d’arte contemporanea, una campagna di affissione di manifesti di tre tipologie diverse (80 per soggetto), a partire dal 28 ottobre e per 15 giorni, di cui una metà sono stati presentati nel centro cittadino e l’altra nel quartiere Lingotto dove si teneva l’Art Fair Artissima. Ha recuperato i primi soggetti usati negli anni ’90 rendendo più concise le composizioni al limite della scarnificazione vera e propria. In sostanza ha effettuato un’ulteriore riduzione degli elementi significanti presenti nei tre tipi di manifesti: i nomi di tre artisti, Van Gogh, Picasso e Mondrian (il primo nome di artista, questo, utilizzato per un fotomontaggio anteriore al 1990) e la nota grattugia di metallo per il primo, lo scopino per il wc per il secondo e un pollo spennato (da macelleria come nell’opera targata Benetton ma diversamente), per il terzo. L’ambiguità comunicativa delle opere di vent’anni prima scompare con la sparizione degli orari e di ulteriori parole che, pur essendo elementi insufficienti a dare uno scopo concreto al dispositivo comunicativo, erano comunque elementi indirizzanti alla percezione di un intervento programmatico dalle molte sfaccettature. L’operazione formalmente rimane la stessa, un’affissione su quei muri che fanno un “luogo pubblico” ma l’informazione che ne risulta, e viene data, è differente: possiamo affermare essere più chiara? Più definita? Più spiazzante? È evidente la componente polemica nei confronti del così detto “sistema dell’arte” ma viene anche da chiedersi se l’artista si interroga ancora sul rapporto tra pubblicità e arte o meglio, sulle possibilità che un certo tipo di medium comunicativi, e l’idea stessa della comunicazione, possono agire nella creazione di un prodotto artistico con qualità diverse e obiettivi diversi da quelli tradizionali. Forse questo rapporto ora è dato per acquisito, del resto sono passati molti anni dalla prima operazione, e quello che viene indagato ora è l’effetto di associazioni verbo-figurali che non sono più le “libere associazioni” dei surrealisti mutuate dagli studi psicologici, ma quelle che la cultura diffusa e “popolare” filtra (un paradosso questo) e propone come sistemi di pensiero che diventano poi schematismi di comportamento. È chiaro che Vincent Van Gogh non viene identificato con una grattugia più di quanto Pablo Picasso possa esserlo con uno scopino da wc o Piet Mondrian con un pollo, non è questo il “messaggio” dell’artista, ma piuttosto il quesito di come vengano recepite queste associazioni e di quale effetto producono nella mente dell’osservatore; e se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con l’arte o non piuttosto con la sua banalizzazione, pratica questa diventata peraltro di una certa rilevanza costruttiva e formale nella produzione contemporanea e quindi più che degna di una certa attenzione.