Inizio questa mia lettura attorno all’opera di Carlo Buzzi con un appunto tecnico-mediatico: è stato uno dei primi artisti in Italia a promuovere le informazioni e la documentazione sul proprio lavoro con un sito internet; fin dai primi anni ‘90 quando ancora si contavano le presenze sul web lui era già pronto con una documentazione ben strutturata ed esaustiva in rete. Aperto al mondo al dì là del piccolo villaggio globale dell’arte contemporanea. Aprirsi a un pubblico eterogeneo è sempre stata una sua attenzione, anche se in prospettiva, come vedremo, del pubblico gli interessa poco, quel tanto che serve per imporgli una sua visione, caratterizzata anche dalla cattura dello sguardo sfuggente del passante che con la coda dell’occhio cerca le cose nel rasentare i muri.
Nel 1995 aveva in rete un suo “portale”, una galleria virtuale, si usava dire così, uno dei primi spazi on line specifici dedicati all’arte contemporanea, per documentare in primis la sua attività artistica e nel contesto di una dimensione partecipativa e condivisa, per inserire i profili biografici e le opere degli artisti amici con cui aveva un rapporto di collaborazione e stima. Il sito aveva un nome poetico, lo aveva battezzato con il nome di un fiore: “Margherita”.
La predisposizione a credere nel mondo tutto nuovo del web gli è stata possibile per via delle sue conoscenze e implicazioni nel campo informatico e dalla spinta visionaria e futuribile, di considerare lo strumento internet assolutamente funzionale per documentare un lavoro come il suo pensato per i media e per la strada.
Il primo ricordo che ho di un suo lavoro è stato l’incontro inaspettato e misterioso con una pagina apparsa in un numero della rivista d’arte Flash Art nel 1990. Un’inserzione pubblicitaria sembrava, ma nell’immediato non c’erano appigli per cui si fosse sicuri che lo era veramente una pubblicità, realizzata, ho saputo successivamente, in collaborazione con la galleria di Luciano Inga-Pin. Una comunicazione ambigua a prima vista, che segnalava una fantomatica mostra, forse una mostra… ma solo per via del nome di Picasso nel titolo, e che accostava provocatoriamente il nome dell’artista con l’immagine di un dozzinale scopino del cesso e un sintetico orario. Pur adottando un sistema di codici visuali vicino a quello pubblicitario con headline, body copy, attacco, base line ecc… il risultato era tutto un enigma. Questa fu la prima operazione cosiddetta “pubblica”. Poi è uscito dalle pagine delle riviste per entrare direttamente nelle strade, lì in verticale sui muri. Buzzi intuisce presto che l’intervento su una rivista d’arte era piuttosto “sospetto”, implicito e correlativo al sistema dell’arte, che era facile – trattandosi di una rivista di quel genere – arrivare alla conclusione che si trattasse dell’intervento di un artista, per quanto anonimo e nascosto, perché sempre nelle maglie di un sistema, che voleva lasciarsi alle spalle, la sua operazione stava articolandosi e girando. La soluzione naturale, il motivo risolutore che lo contraddistinguerà, lo troverà pochi mesi dopo, quando trasferirà la sua comunicazione direttamente “nella strada”, con l’ambizione di un confronto più ampio con il sistema dei luoghi della comunicazione di massa; nel caso specifico con il circuito mercantile delle affissioni pubbliche. Ha scelto così di condividerne l’operatività, in parte lo statuto e soprattutto i luoghi, giocando sulle differenze tra il suo operare, connotato da una radicalità rara e quello della pubblicità, la cui finalità è ovviamente la vendita di un prodotto, cercando tra le pieghe scoperte di un messaggio che si vuole coercitivo, un sottile cortocircuito tra le sue immagini “mute” e gli spot ammiccanti dei manifesti pubblicitari. Adbursting: antipubblicità si direbbe.
Interviene con il media del manifesto, storicamente connotato da una sua specificità, utilizzandolo per percorrere le vie del paradosso, accostandosi e ponendosi accanto ai messaggi convenzionali e disciplinati del consumismo operativo (come questi “antagonisti integrati” prenota gli spazi di dominio pubblico) cercando di predisporre una copertura di manifesti nelle vie assegnategli, che sia plausibile e abbastanza forte per avere una certa visibilità in tutta una città. La scelta di confrontarsi con il sistema dell’advertising urbano non nasce da un suo interesse specifico per questa forma di comunicazione, ma piuttosto dalla necessità di superare i limiti del mondo dell’arte (li sente angusti e datati, storicamente anacronistici), per superare gli spazi dei luoghi espositivi deputati, e rinnovare il circuito artista-opera-critico-gallerista-museo cercando spazi che siano fuori, altri, e ovviamente non whitecube (la sua operazione prevede poi una processualità e storicizzazione dell’opera che considera il rientro in questo contesto).
È chiaro che il messaggio pubblicitario “convenzionale” ha lo scopo di promuovere un prodotto e generare vendite, che è predisposto ad una chiarezza e ad una specificità attenta a cogliere un determinato target, con un messaggio chiaro, efficace e “rassicurante” nei confronti del pubblico. Ecco, l’operazione di Buzzi è esente da questa finalità o almeno la ricalibra secondo norme poetiche ed estetiche.
Lo spettatore occasionale che si trova a notare un suo manifesto, rimane privo di riferimenti e quindi è portato a una riflessione inedita e inaspettata rispetto alle normali convenzioni di lettura delle immagini nel paesaggio urbano; questo spettatore non è visto qui come un consumatore, Buzzi non ha in lui un destinatario modello, non ha un target. Il suo interlocutore generalista è indotto a esperire nell’ambito del quotidiano uno strano tipo di smarrimento sensoriale ed emotivo, e subito dopo quando l’interrogativo si fa pressante, anche intellettuale. Il linguaggio adottato, non bisogna scordarlo, è sempre quello dell’arte.
È importante evidenziare che Buzzi paga – in base alle tariffe comunali vigenti – gli spazi che usufruisce. Acquistando come un’agenzia di pubblicità lo spazio necessario alla costruzione e messa in visione dell’opera, si comporta come un operatore specializzato, quindi utilizza all’interno di regole rigide, la concretezza del sistema operativo e le regole commerciali e sociali per favorire i suoi scopi espressivi. ll numero di fogli esposti ad esempio, di formato standard, è comparabile – sia pure ai minimi termini – ad una campagna pubblicitaria di tipo commerciale condotta per una qualsiasi azienda o prodotto ma, differentemente, per lui è più significativo – ai fini della poetica del suo stare in mezzo alle cose – il “luogo” piuttosto che il contenuto. La ripetizione delle sue immagini all’interno del circuito pubblicitario è sistematico e regolarizzato, ma è anche una rottura, un anacoluto che in qualche modo disturba la specificità dei messaggi delle altre campagne d’affissione.
Quei metri quadri di muro che saranno il supporto del suo essere nel mondo, e qui intendo il normale, comune, abituale mondo delle persone, con i passi della gente, gli sguardi veloci degli automobilisti, la fretta, il tempo che manca e tutto il lutto indaffarato della nostra civiltà: con o senza pubblico, le operazioni artistiche di Buzzi sono metri quadri di pura interrogazione sul destino delle nostre vite.
Cosa fa quindi dell’arte di Carlo Buzzi “Public art”? Buzzi ci ricorda spesso e a chiare lettere che fa “arte pubblica” innanzitutto il fatto di aver maturato una “coscienza pubblica”. Mi piace questa sua idea della coscienza, lì appiccicata sui muri… che poi è una presa di posizione, una scelta di campo precisa.
Ne è testimone di questo la sistematicità dell’operazione che ha condotto, in quest’unica direzione dal 1990 ad oggi. Non c’è improvvisazione come spesso si è rilevato in manifestazioni che si sono susseguite nel corso degli anni che hanno sbandierando l’etichetta di public art, o in opere estemporanee di artisti che per un momento si sono dedicati al “muro” o ad una pseudogenerica arte in pubblico, solo perché all’aperto o in diretto contatto con l’urbanità.
Il fatto che nelle città ci siano le persone e che quindi i suoi manifesti possano incombere su di loro non è nemmeno prioritario ne determinante, come non è determinante uno spettatore dalla visualità anarchica, che può essere sia complice del lavoro, vittima inconsapevole o pubblico indifferente. Buzzi alla fine che se ne fa del pubblico? Applica una strategia concettuale che sposta l’opera/operazione dal contesto deputato all’arte alla strada (a questo punto come Buzzi sottolinea più volte quando racconta i suoi lavori “anche se la città fosse disabitata non cambierebbe nulla a riguardo del senso della mia operazione”).
Questo è il suo topic e la sua magnifica contraddizione.
Un altro appunto sul suo lavoro riguarda la dimensione temporale dell’affitto degli spazi, che coincidono con la messa in dimora delI’opera/zione stessa e della sua “fruizione” adeguata, quindi della successiva formalizzazione dei “reperti”: il manifesto – o una sua parte, un frammento – è strappato dai muri e presentato, accanto alla sua documentazione fotografica, bello incorniciato sulle pareti, interne questa volta, di una galleria o spazio espositivo.
Buzzi che annuncia di voler uscire dagli spazi whitecube e poi ci rientra in condizioni di normale operatività, c’è forse un’incoerenza con il suo spirito e intento originario? Rispetto a questo Buzzi risponde che il tutto è già previsto fin dalla concezione della prima operazione, che il riposizionamento all’interno del codice storico della mostra in galleria, è parte essenziale di quella stessa strategia che fa discendere l’arte nella strada, che comprende la circolarità dell’operazione, e che disperde il reperto ai collezionisti. L’opera vive nel momento dell’incontro sotto il cielo, il resto è memoria, ricordo, e appunto reperto.
Accompagna questo suo articolarsi e dipanarsi sui muri, la prassi egoica di definirsi il vero artista pubblico. Il fatto è che insistendo con le operazioni nell’ambito pubblico ha comunque conquistato un nuovo spazio per l’arte, o meglio ha rinnovato il senso di questo spazio, mostrandoci qualcosa di inaudito ed esemplare (direbbe lui). Quindi le maglie dell’arte si allargano, ma l’arte è sempre all’interno del mondo, anche se un po’ anonima al primo sguardo, tanto che non si può uscire dall’arte sviando lo sguardo dal mondo (che poi era stato il suo tentativo iniziale, atteggiamento parente di quello ormai storico delle avanguardie di demolire l’arte corrente) e annullare l’arte cercando di dissolverne le regole e i meccanismi. Di questo ne ha una limpida coscienza.
Altro problema. Dopo un pollo (L’evoluzione del pollo… ricordo è del 1993), nei suoi lavori il protagonista è sempre l’artista stesso. E’ lui che è presente. E’ lui che manifesta una presenza decisamente egocentrica ed edonistica.
Dove finisce il suo io e quanto c’è di autobiografico nel suo lavoro?
Se guardiamo in ordine temporale i soggetti che caratterizzano il suo percorso, si nota che, passando attraverso il corpo di un pollo utilizzato in associazione ad un famoso logo, è approdato alla produzione di immagini che vedono lui stesso come protagonista, costituendosi propriamente come emittente rappresentato. Lui come se stesso e lui come altri sotto mentite spoglie. Si era servito in passato del nome di artisti appartenenti ormai all’immaginario collettivo: Picasso, Van Gogh, ma anche Wittgenstein è passato dalle sue attenzioni, con l’intento di porre una riflessione sul senso di valore delle immagini “icone”, come schermi su cui riflettere una visione del mondo a volte ludica, altre allusiva altre ancora semplicemente estetica.
Il suo visual, giusto per adottare il linguaggio specifico dell’agenzia pubblicitaria, nasce da associazioni, o almeno da strani incontri non usuali tra contenuti e forme. Si direbbe un percorso dialettico in cui emergono le dicotomie citazione/oggetto, citazione/corpo, io/corpo, linguaggio/corpo. Il tutto con un’attenzione ai primi piani e alle forme che rendono l’immagine “spessa”, fisica quasi, in cui proprio si sente la presenza massiccia del suo corpo.
La problematica legata al corpo, alla presenza in questo caso fortemente identitaria, la vedo come una proiezione non conformista dell’idea o della riproposta del tema storico dell’autoritratto.
Per Buzzi è molto naturale esporsi, essere immagine, è un modo d’essere: il corpo/soggetto gli serve come punto di passaggio, come tramite verso “l’operazione in sé” che è il vero collante, il processo maturo della corrispondenza immagine-arte-mondo. Ad ogni modo ci sono sicuramente delle rabdomantiche “problematiche legate al corpo” nella sua sensibilità identitaria, ma non sono per lui così pressanti e importanti. E’ importante poi evidenziare ancora la struttura stessa della messa in opera del lavoro nell’ambiente urbano, collegandola alla sua “presenza”, cioè la regolarità, la diffusione, la quantità e la ripetizione, il ritmo, ma anche la sorpresa: tutte cose da considerare per interpretare bene l’operazione di Buzzi, così com’è importante l’attenzione per il sistema di segni dato dal “suo” corpo, che qui diventa l’ornamento del mondo, l’ombelico del mondo, visto che costituisce per il nostro immaginario (l’apparire) un luogo primario del simbolico.
Con ciò diciamo che esistono quindi suggestioni storico-filosofiche-artistiche-etnologiche e tracce autobiografiche che lo hanno ispirato nel corso degli anni.
Buzzi indubbiamente è operativo in mezzo alla strada, è appiccicato ai muri, e sente come fondamentale questa presenza nella realtà quotidiana della vita comune della polis. Ma come costruisce la sua realtà del mondo? Ci sono forse delle valenze politiche nella sua messa in discorso di un’arte che non fa della persuasione, visto il luogo, uno dei suoi motivi fondanti?
I suoi manifesti cosa mettono in primo piano? Solo se stesso?
Direi che evocano un annuncio di sistematica libertà immaginativa e di trasgressione, in quanto emittente di una comunicazione che non è occultata nella stessa, committente e messaggio comunicativo coincidono, combinandosi dialetticamente in funzione di un annuncio mitopoietico.
Buzzi dichiara spesso che non esiste alcun intento “politico” nelle sue operazioni, nessuna operazione persuasiva. Anche se poi ad esempio, un suo manifesto riguarda “l’artista multietnico” dove compare dipinto in volto di nero. Alcune presenze potrebbero far propendere lo spettatore verso una tale conclusione, di un’attenzione mirata a problematiche sociologiche o sociopolitiche ma ciò rimane per Buzzi un problema dello spettatore, una sua libera interpretazione. La sua intenzione (azione) è tesa verso una dialettica tutta interna a un discorso sull’arte, una strategia che realizza la sua idea eversiva nella strada che si compie poi, in una formalizzazione dell’evento idonea a rientrare nel circuito convenzionale dell’arte con reperti, fotografie, strappi e frammenti dei manifesti che raccontano il breve passaggio sui muri: il tutto ben documentato ovviamente. L’immagine così si fa racconto e la storia presentata ha la struttura portante nel linguaggio e nella sua prerogativa opportunamente finzionale.
Luca Scarabelli, aprile 2014